Intervista a Davide Van De Sfroos
Il Messaggero 02.04.2011
Gingerà domani sera a Perugia uno dei principali protagonisti dell’ultima edizione di Sanremo, dove si è classificato quarto con il brano in dialetto comasco Yanez. Stiamo parlando di Davide Van De Sfroos, che sarà all’Auditorium Vannucci di Ellera per presentare il suo nuovo spettacolo (inizio ore 21,30 – posto unico 23 euro).
Quella di domani sarà un’occasione da non perdere, visto che non ti capita spesso di suonare in Umbria.
«È vero, mi sono esibito da queste parti solo un paio di volte, la prima nel mezzo di una vigna nei pressi di Foligno. Non è stato facile finora arrivare in queste zone».
Come mai?
«Nonostante per il mio modo di far musica sia davvero fondamentale uscir fuori dai propri confini e spingersi il più lontano possibile, questa è anche la cosa più difficile. Del resto cantare in dialetto ha senso proprio perché permette di portare fuori da un ambito limitato il proprio messaggio».
Credi che il recente interesse verso la canzone dialettale sia una moda?
«Mi fa molta paura quando si parla più di dialetto di quanto poi si parli effettivamente in dialetto! L’anno scorso in molti esultarono dicendo: “hanno finalmente sbloccato il dialetto a San Remo”; poi però accade che per un periodo se ne parla anche troppo prima di tornare nel limbo. Basta pensare al periodo delle “posse”, per esempio. È bello che esistano artisti che continuano questa tradizione anche nei momenti più difficili».
E tu perché lo fai?
«Non certo per essere in controtendenza, quanto piuttosto per sostenere qualcosa che non è stato preso in giusta considerazione».
Quanto conta il dialetto nel tuo modo di fare musica?
«Di certo è rilevante, ma anche se cantassi in italiano le mie canzoni sarebbero comunque anomale: c’è molta sperimentazione, un approccio genuino ed uno stile di composizione quasi innaturale».
Di certo non sei un artista “commerciale”.
«Gli addetti ai lavori consigliano sempre di non scostarsi dai trend, ma c’è una parte d’Italia che vuole che qualcosa accada e l’ultimo San Remo l’ha dimostrato; il fatto che io sia stato chiamato al Festival ne è la prova suprema».
L’inizio del tour sembra confermarlo.
«Beh a Locarno c’erano più di 3000 persone, poi è andata benissimo anche a Milano e Bergamo. La gente è calda e presente, credo che sia meglio avere davanti 50 persone che hanno capito piuttosto che 100 accorse solo perché ti hanno visto in televisione».
Anche su questo i tuoi discografici non saranno proprio d’accordo.
«Non voglio dire che vado in giro a far questo lavoro solo per un piacere mio, però non lo faccio certo per sbarcare il lunario. Ho 46 anni e credo ancora in un sogno iniziato 15 anni fa. Vedere che ci sono persone a cui realmente arriva qualcosa è una soddisfazione grandissima. Del resto cantare in dialetto può essere una delle cose più naturali, eppure alcuni non lo fanno perché hanno paura: io sapevo che il rischio c’era, ma sentivo di doverlo fare». Ascoltare per credere.